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Andres D'Alessandro, gioiello a metà: dalla corte della Juventus al Brasile

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Chi lo ha visto all'opera negli ultimi anni della sua carriera, tra una punizione e una boba (palla spostata leggermente da una parte con la suola, ripartenza fulminea nella direzione opposta), difficilmente può immaginare cosa sia stato e cos'abbia rappresentato Andres D'Alessandro. Ex bambino prodigio, 42 anni oggi. Il classico talento che avrebbe potuto ottenere molto di più, se solo avesse trovato quel minimo di continuità necessaria per sfondare nel calcio dei massimi livelli.

Giocatore sopraffino, un sinistro prelibato, un'intelligenza calcistica sopra la media: D'Alessandro, oggi dirigente dei brasiliani del Cruzeiro, aveva tutto e di più. Ma è rimasto vittima del classico "uno su mille ce la fa". Lui non ce l'ha fatta. A diventare re in Europa, almeno. Si è dovuto accontentare - si fa per dire - di diventare idolo massimo nel River Plate e nell'Internacional, le due squadre con le cui casacche sarà ricordato nei secoli dei secoli.

Eppure, nell'ormai lontano 2002, sembra davvero che D'Ale sia destinato a brillare nel firmamento del grande calcio. Non ha che 21 anni, è reduce dal trionfo dal protagonista nel Mondiale Under 20 dell'anno prima. Gioca nel River, e gioca piuttosto bene. Tanto che Pelé lo definisce "il giovane argentino che mi piace di più". Lo vede all'opera anche un certo Diego Armando Maradona, che pronuncia una sentenza entrata nella storia:

"Un fenomeno. Il giocatore che mi assomiglia di più. E l'unico che mi fa divertire quando gioco una partita"

Dettaglio: D'Alessandro è del River, ma Diego è una leggenda del Boca. Eppure, per una volta, il Diez lascia perdere i colori e cerca di guardare in faccia quella che crede essere la realtà. Peccato che 8 anni dopo, da commissario tecnico dell'Argentina, Maradona escluderà il suo possibile erede dall'elenco dei convocati per i Mondiali sudafricani, conclusi ingloriosamente dall'Argentina con il tremendo poker rimediato dalla Germania nei quarti di finale.

"Un'ingiustizia - dirà anni più tardi D'Alessandro - Arrivavo dall'annata migliore della mia carriera, avevo vinto la Libertadores. La motivazione fu extracalcistica. Qualcuno disse che non ero stato chiamato perché mio fratello aveva una relazione con una delle figlie di Maradona".

D'Alessandro ArgentinaGetty

Tra il 2002 e il 2010, ne passa di acqua sotto i ponti. Il gioiellino D'Alessandro attira quasi subito l'attenzione della Juventus, che decide di provare a portarlo a Torino. La Triade Moggi-Giraudo-Bettega lo vorrebbe in coppia con il compagno di squadra Fernando Cavenaghi, di professione attaccante. Sguinzaglia qualche emissario a Buenos Aires, tratta col River. Ma le cose vanno diversamente, perché ad agire con maggiore concretezza è il Wolfsburg, che se lo porta in Germania nel luglio del 2003.

Non funziona. D'Alessandro in Germania non si ambienta proprio. E da lì inizia un peregrinare senza fine. Va in Premier League al Portsmouth, quindi in Liga al Saragozza. Lo chiama il vecchio maestro Ramon Diaz, fresco di titolo nazionale al San Lorenzo, e D'Alessandro accetta di tornare in Argentina. Fin da piccolo lo hanno sempre chiamato Cabezón, testone, per via del suo carattere testardo, ma anche lui capisce che a volte è meglio fare un passo indietro per farne due avanti.

La chiamata dell'Internacional, nel 2008, è il vero spartiacque della sua carriera. Da talento con vista Europa, D'Alessandro si stabilisce a Porto Alegre. Sembra un trasferimento al buio, un'offerta accettata per mancanza di alternative: non sarà così. Al Colorado comincia in punta di piedi, ma ben presto ne diventerà il capitano e simbolo. Il matrimonio si interromperà solo per 12 mesi, nel 2016. D'Ale, come lo chiamano in Brasile, non se la sente di andarsene neppure quando l'Inter è impensabilmente costretto a giocare un anno in Serie B per la prima volta nella propria storia, nel 2017. Lascerà solo tre anni più tardi, destinazione Uruguay, Nacional di Montevideo.

Il grande rimpianto della sua carriera non riguarda tanto la chance sprecata in Germania, in Inghilterra e in Spagna. Ne fa un cruccio, sì, ma non quanto il rapporto quasi inesistente con la Selección: "Non so se sia riuscito ad arrivare a 25 presenze comprendendo anche Under 20 e Under 23", ha detto. Con la Nazionale maggiore sono solo 9, la prima nel 2003 e l'ultima nel 2009. Nel 2004 gioca la Copa America, ma in finale sbaglia uno dei rigori contro il Brasile. Il primo a chiamarlo è Marcelo Bielsa, in un'amichevole contro gli Stati Uniti in cui il Cabezón - nomen omen - si fa espellere per doppia ammonizione:

"Lui mi conosceva, capiva la mia personalità e il mio carattere - ha detto D'Alessandro del Loco - Sapeva come prendermi. Se avesse continuato ad allenare l'Argentina, sarei stato convocato per molto tempo".

Crucci, rimpianti, treni passati e mai più riacchiappati. E poi ci sono le gioie, non poche. I trofei con il River Plate e l'Internacional, la nomina a Rey de América in quel 2010 magico solo a metà, la stima anche degli avversari: più volte sono diventate virali le foto di alcuni tifosi del Gremio intenti a farsi un selfie assieme a lui, acerrimo avversario. In campo, però, niente sconti. D'Alessandro è sempre stato qualità ma anche furore, bellezza artistica ma anche fuoco sacro, piede (sinistro) educato ma anche garra sudamericana. Specialmente nel Superclásico o nel clássico di Porto Alegre.

Sedotto e abbandonato dal calcio europeo, non senza sue colpe, D'Ale si è (ri)costruito una vita lontano dai riflettori abbaglianti. Ed evidentemente gli sta bene così: meglio essere re in Brasile che comprimario in Germania o in Inghilterra, ha sempre pensato. Abbandonati i sogni irraggiungibili, si è accontentato di fare i conti con la realtà. Ma qualche anno fa i tifosi dell'Internacional lo hanno votato secondo miglior giocatore della storia colorada dietro all'immenso Paulo Roberto Falcão. Vuoi mettere?

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