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La "rivelazione religiosa" di Mourinho, il Re di Coppe

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“Il club ha dormito per un po’ e si è svegliato parecchio bene”.

Quando José Mourinho, con cravatta “allargata” e camicia sbottonata, capello da businessman alla fine di un’intensa giornata di lavoro, consapevole di aver portato a termine uno degli affari più importanti della sua vita, si presenta ai microfoni dello “spot” di Sky Sports dell’allora Auf Schalke di Gelsenkirchen (oggi Veltins-Arena), parla nei termini di un principe fiabesco intriso di quel tocco magico, e mistico, di chi, salito in cima alla torre più alta del castello, dopo aver sconfitto draghi e creature distanti dalla natura umana, si palesa di fronte a una principessa prigioniera di un incantesimo senza apparente soluzione.

E, in effetti, è così: prima del suo arrivo sulla panchina del Porto, gli unici successi in ambito internazionale risalivano al 1987: una Coppa dei Campioni, conquistata al Prater contro il Bayern Monaco, una Supercoppa UEFA e la Coppa Intercontinentale. Tutto questo, nello stesso anno in cui José, ex difensore, aveva deciso di appendere gli scarpini al chiodo, svestendo la maglia del Comércio e Indústria di Setùbal, a 24 primavere.

Mou, però non era solo riuscito a sconvolgere l’Europa vincendo facilmente una finale di Champions League. Si era appena presentato al mondo del calcio come “l’unico salvatore” capace di traghettarlo all’epoca moderna. Il Messia. Un uomo speciale: lo “Special One”, appunto.

  • Mourinho PortoGetty

    IL MESSIA

    “Ho deciso di andar via”: è chiaro che nessun portoghese, e tifoso del Porto, il 26 maggio del 2004, avrebbe mai pensato di convincere José Mourinho a rimanere sulla panchina biancoblù. Tutto ciò che poteva vincere, con una squadra parecchio al di sotto del livello delle ultime vincitrici della Champions League (in ordine, a ritroso: Milan, Real Madrid, Bayern Monaco e ancora Real Madrid, contando quelle dal 2000 in poi), l’aveva vinto: si poteva fare di più? Mou aveva vinto anche in patria: aveva conquistato due campionati, una Coppa del Portogallo e una Supercoppa. E, com’è noto, un anno prima aveva già alzato al cielo di Siviglia, all’Estadio de la Cartuja, un’insperata Coppa UEFA contro il Celtic di Martin O’Neill (una delle migliori espressioni tra le varie formazioni degli Hoops, tra l’altro), dopo aver eliminato, sempre a ritroso, Lazio, Panathinaikos e Denizlispor (a dire il vero, quest’ultimo agevolmente, con un 8-3 complessivo).

    Tra la formazione che ha battuto il Celtic per 2-3 ai supplementari in finale di UEFA e quella che ha schiantato il Monaco per 0-3 in finale di Champions cambiano solo due elementi: Dmitri Alenichev, sostituito un anno più tardi da Pedro Mendes a centrocampo (e comunque subentrato, con goal finale, a Gelsenkirchen), e Nuno Capucho, che verrà “rimpiazzato” da Carlos Alberto, autore della prima rete contro i francesi. Il resto: Vitor Baia in porta, Paulo Ferreira, Jorge Costa, Ricardo Carvalho e Nuno Valente in difesa, Costinha e Maniche in mediana, Deco sulla trequarti e Derlei in attacco.

    “La finale contro il Celtic non è stata la migliore delle vittorie, perché non ero al massimo della gioia personale, ma in termini d’intensità è stata la partita più importante della mia carriera. Quando è terminata ho pensato: “E’ finita, sono morto’”.

    Quanto è riuscito a fare Mou in due anni al Porto è in totale controtendenza rispetto ai progetti che metterà in piedi negli anni successivi, almeno fino al suo arrivo alla Roma. Nel 2002 si siede, a colloquio con la società, e decidono di ingaggiare i migliori giovani (“affamati”, li definirà) dalle piccole, o comunque senza spendere milioni su milioni. Poi si insedia e, come racconterà a “The Coaches’ Voice”,li sottopone a un test psicoattitudinale per adattarli al meglio alla dimensione che avrebbe voluto dare ai Dragoes. Due anni dopo, abbandona i festeggiamenti di Gelsenkirchen rientrando negli spogliatoi: a Sky Sports provano in tutti i modi a estorcergli la prossima destinazione della sua carriera, domandandogli più volte del Chelsea. Alla fine, cede: “Quasi certamente in Inghilterra”. Nessuno, a Oporto, può trattenerlo. Ed è giusto così.

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  • Mourinho InterGetty

    LA "RIVELAZIONE MOURINHANA"

    “Abbiamo dei Top Player e, scusate se sembrerò arrogante, abbiamo anche un Top Manager. Per favore, non definitemi arrogante perché quel che dico è vero: sono un Campione d’Europa. Non sono uno dei tanti: io mi sento speciale (“Special One”)”.

    La prima conferenza da “Messia” del Chelsea mette in luce un Mourinho che, con il passare degli anni, verrà meno alle sue stesse premesse: il volto disinteressato, freddo, verrà tradito dalle emozioni. Si presenta ai microfoni con un inglese eccellente, aspetto già mostrato negli anni precedenti, e una capacità dialettica che farebbe breccia su chiunque.

    Anche alla prima conferenza in Italia, da allenatore dell’Inter, farà comprendere a tutti i presenti, e non, di aver perfettamente capito il contesto sociale in cui si sta sviluppando il percorso calcistico dei nerazzurri e della Serie A. “Io non sono un pirla”, in verità, non è solo una frase intrisa di ironia: avrebbe potuto dire qualcos’altro, ma no. Ha usato proprio “pirla”: uno dei termini più utilizzati nell’area lombarda. Ha pubblicamente sfidato l’aspetto comunicativo del Paese, certamente non abituato, almeno in quel momento, a una scheggia impazzita come Mou.

    La sua è stata una rivoluzione: mediatica, sociale, calcistica. Non è stato il miglior calcio mai messo in pratica in Italia, ma sicuramente il miglior “drama” (a lieto fine) in due atti, o due anni, che l’interismo ricordi. Ha messo insieme aspetti entrati a far parte della nostra cultura calcistica a tal punto che citarli, per quanto iconici, sarebbe superfluo.

    Al principio del punto più alto della sua carriera, compie alcune mosse che ancora oggi trovano poche spiegazioni: il 26 agosto l’Inter acquista Wesley Sneijder. Tre giorni più tardi è in campo, dal primo minuto, nel Derby vinto contro il Milan per 4-0: l’olandese causa l’espulsione di Gennaro Gattuso. Più in generale, è uno dei migliori in campo: José lo ha voluto a tutti i costi, anche più di altri, a fine mercato. Sarà lui a segnare la rete che “salverà” i nerazzurri a Kiev, contro la Dinamo, ai gironi: Mou sapeva. Sapeva tutto: lo sapeva in anticipo. Non toglie dal campo Goran Pandev, nel Derby di ritorno, frenando la sostituzione: gli permette di battere la punizione che, poi, regalerà il 2-0. Sapeva: vedeva prima.

    Nella “rivelazione Mourinhana”, di matrice puramente religiosa, trovano spazio i miracoli che, negli anni, sono stati tramandati dai suoi discepoli, in un Vangelo fitto di aneddoti che, ancora oggi, vengon fuori come perle di una stagione che consegnerà all’eternità il Mago di Setubal. Uno degli ultimi lo ha raccontato proprio Wesley Sneijder a RTL7.

    “Qualche settimana prima della finale di Champions, Mourinho ha chiamato Materazzi nel suo ufficio e gli ha detto: ‘Ecco una lettera, la metto in una busta, aprila dopo la partita’. C’era letteralmente il risultato della finale contro il Bayern Monaco”.

    L’abbraccio a Materazzi, fuori dal Santiago Bernabeu di Madrid, nella notte del Triplete, è il momento in cui Mou è stato tradito dalle sue emozioni: la “rivelazione Mourinhana” è compiuta, come aveva previsto. Il Messia ce l’ha fatta.

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  • CONTRO I POETI

    Miscredenti diranno che, però, in questa storia abbiamo tralasciato diversi particolari importanti relativi alle esperienze meno fortunate che hanno caratterizzato il pre e il post Triplete: la domanda che va rivolta, in risposta, è “come definire quella al Manchester United?”. I Red Devils, alla prima stagione di Mou in panchina, arrivano sesti, a -7 dal Liverpool quarto e in zona Champions League: sì, insomma, non una stagione troppo esaltante, pur iniziata con la vittoria in Community Shield contro il Leicester (che, sì, sapete, era Campione d’Inghilterra). 

    Di quell’anno va ricordato senz’altro il ritorno di Paul Pogba a Manchester, ma non è certo la migliore delle formazioni possibili, quella ereditata da Louis van Gaal (vedi tu i casi della vita: suo “capo” al Barcellona e tecnico battuto, nel più classico dei confronti “allievo contro maestro”, a Madrid). Ma lo United, dai sedicesimi di Europa League in poi, soffre praticamente solo contro l’Anderlecht, qualificandosi in semifinale ai tempi supplementari (con una rete di Marcus Rashford).

    È una stagione assai simbolica, però: Mou ritrova Zlatan Ibrahimovic (che anche in quel caso si dimostra al top, pur in un Paese diverso), che gli consegna un primo trofeo a inizio agosto. Segna anche alla prima in Premier League, e questo va detto pure, ma l’aspetto più importante, proprio del “secondo Ibra”, è quello legato all’impatto nello spogliatoio. Diventa il tramite perfetto tra il portoghese e gli altri componenti della squadra, ma come nelle migliori storie, drammatiche, si fa male a un passo dalla finale di Europa League nella sua Svezia, a Solna.

    “Abbiamo preferito questa via a finire quarti, terzi o secondi”.

    C’è una connessione, importante, tra quello che Mourinho dice dopo la finale vinta contro l’Ajax (0-2 con reti di Pogba e Mkhitaryan) e quanto accaduto, nel corso degli ultimi due anni, alla Roma. Forse.

    “Ci sono parecchi poeti nel calcio, ma i poeti non vincono parecchi titoli”.

    Oppure c'è qualcosa in più: lo United non aveva mai vinto l’Europa League. Gli mancava solo quel trofeo (adesso, sì, gli manca anche la Conference): Mou era riuscito a consegnarglielo, compiendo un’altra rivoluzione. Quel gioco che fino ai tempi del Real Madrid era riuscito a mettere in pratica, a tratti anche piacevole, aveva lasciato spazio a un approccio maggiormente pragmatico. Si vince e basta: contro i poeti. Contro gli speculatori.

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  • AMEN

    Il nostro, però, non vuole essere un racconto in ordine cronologico dei titoli vinti dal “Re di Coppe” europee. Non è nel nostro stile. Anche per questo, e per ovvie ragioni che riguardano la vicinanza alla finale di Tirana di appena un anno fa, con il ricordo fresco della vittoria firmata da Nicolò Zaniolo contro il Feyenoord non ci soffermeremo sulla prima stagione alla Roma, la scorsa, di un uomo che è riuscito a compiere l’ennesima impresa della sua carriera (chi snobba la Conference, anzi, la “prima Conference”, dimentica volutamente la qualità delle squadre partecipanti alla fase finale). Ripeschiamo, semmai, uno de racconti della prima finale europea sulla panchina del Porto.

    “In Portogallo, come in altri Paesi, giocare una finale è un po’ qualcosa come ‘Ora o mai più’. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un anno dopo avremmo giocato una finale di Champions League: abbiamo visto quella partita come ‘la partita della nostra vita, della nostra carriera’”.

    Roma non è Oporto. La Roma non è il Porto. Mourinho, però, è sempre Mourinho: lo ha già fatto. Ha già vinto due finali europee di fila: e, soprattutto, non ha perso neanche un atto conclusivo di un torneo internazionale. Magari scriverà una lettera e la consegnerà a Paulo Dybala, chiudendo in un plico il risultato esatto della sfida contro il Siviglia della Puskas Arena di Budapest. Magari, tra qualche anno, parleremo dell’ennesimo miracolo della “rivelazione mourinhana”. Per adesso, tutto ciò che è stato, proprio della sua carriera, basta per vincere contro lo snobismo con cui viene trattato un uomo talmente distante dalla concezione classica di “razionalità” da sembrare inopportuno, ai più, come sa essere un tipo che ha fatto del suo seguito una religione. Con buona pace dei miscredenti. Amen.

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