
E’ il 17 luglio 1994 e su Pasadena il sole californiano picchia inesorabile. Al Rose Bowl si sta giocando una partita tanto importante, quanto drammatica, al termine della quale si saprà quale Nazionale si potrà fregiare per i successivi quattro anni del titolo di campione del mondo. In campo dalle ore 12,30 locali, orario scelto esclusivamente per esigenze televisive, si sono date battaglia per 120’, il tutto mentre il termometro segna 36°, Brasile e Italia. La sfida non è stata particolarmente spettacolare, ma le azioni da goal non sono mancate. Dopo i supplementari il risultato è ancora inchiodato sullo 0-0, il che vuol dire che per la prima volta una finale mondiale si è chiusa a reti bianche e che per la prima volta saranno i calci di rigore a decidere un Campionato del Mondo. Quello di USA ’94.
Il primo a presentarsi sul dischetto è Franco Baresi che, tornato in campo contro ogni pronostico appena venticinque giorni dopo un infortunio al menisco patito contro la Norvegia, ha giocato una partita eroica. E' afflitto da crampi, ma è il capitano, il coraggio non gli è mai mancato e vuole dare l’esempio. Conclusione di destro e pallone altissimo sulla traversa.
Per i brasiliani è Marcio Santos il primo a tentare la trasformazione. E’ stato protagonista di un Mondiale al di sopra di ogni aspettativa, ma nel momento clou si fa ipnotizzare da Pagliuca che respinge. Tocca poi ad Albertini, che spiazza Taffarel, si prosegue quindi con Romario che non può sbagliare. E infatti non sbaglia.
Evani va sul sicuro e spara forte al centro. Italia ancora avanti. E’ il turno poi di Branco, terzino dal sinistro al tritolo che spiazza Pagliuca. Tocca quindi a Massaro che spedisce il pallone lì dove Taffarel può arrivare senza troppi affanni.
E’ a questo punto che dal centrocampo si incammina verso il dischetto un mediano con il numero 8 sulle spalle e la fascia al braccio. Il Brasile può contare in rosa su altri elementi esperti di valore assoluto come Mauro Silva, Aldair, Raì, Bebeto e gli stessi Romario e Branco, ma il capitano indiscusso di quella squadra è lui. Quelli che sta compiendo sono i passi più importanti della sua intera carriera, il tutto a poco più di dodici mesi da quello che viceversa è stato il momento più basso della sua vita da calciatore: la retrocessione dalla Serie A alla Serie B con il Pescara.
Il campione che si sta dirigendo sicuro verso l’area di rigore, sapendo di avere addosso gli occhi di miliardi di spettatori, e nel suo destro le speranze di circa duecento milioni di brasiliani, si chiama Carlos Caetano Bledorn Verri e tra l’altro ha origini italiane. Tutti lo conoscono semplicemente come Dunga, che in portoghese sarebbe la traduzione di Cucciolo, uno dei Sette Nani ma, a dispetto del soprannome, quando è in campo è duro come pochi.
La Fiorentina l’ha acquistato nel 1984 nell’ambito dell’affare che ha portato Socrates in viola, ma ha deciso di lasciarlo in Brasile a maturare. Per il suo approdo in Italia bisogna attendere il 1987, quando arriva sì in Toscana, ma al Pisa che lo accoglie in prestito. Non solo dimostra fin da subito di essere più che pronto per il campionato italiano, ma si impone come miglior straniero del torneo e trascina i nerazzurri alla conquista della salvezza.
I tempi per il trasferimento a Firenze si fanno finalmente maturi un anno dopo ed il giovane centrocampista brasiliano ci mette un nulla a diventare uno degli idoli della tifoseria gigliata. Davanti alla difesa è una diga e abbina all’innata intelligenza tattica, qualità fuori dal comune che gli permettono di far ripartire l’azione come pochi. Usa soprattutto l’esterno destro, si fa sentire sulle caviglie degli avversari quando serve, cioè spesso, ed ha un’altra caratteristica importante: è un leader anche nello spogliatoio.
GettyDai primi guizzi all’ombra della ‘Torre di Maratona’ alla fascia di capitano il passo è breve, ma quella alla Fiorentina sarà un’avventura che finirà male. E’ l’estate del 1992 quando Vittorio Cecchi Gori decide che la squadra va profondamente rinnovata. In riva all’Arno arriveranno moltissimi giocatori nuovi e le chiavi del centrocampo devono essere affidate ad un ragazzo che ha fatto vedere cose interessanti al Bayern: Stefan Effenberg. Per Dunga, che è legato al club da un contratto da 1,5 miliardi di lire a stagione, non c’è più spazio e si arriva quindi ad uno scontro tra le parti che si sposterà perfino davanti al Collegio Arbitrale della Lega. Il brasiliano ha lanciato un’accusa pesante a Cecchi Gori - (“Mi vuole mandare via perché non ho accettato di fare la spia nello spogliatoio”) - e per il club la cosa è talmente grave da richiedere una sospensione. Il Collegio alla fine deciderà per 15 milioni di multa, ma intanto la data del ritiro si avvicina e l’ormai ex capitano non viene convocato per la cerimonia di presentazione della squadra a Santa Croce. Viene anzi spedito ad allenarsi con la Primavera.
Vittorio Cecchi Gori, che del club è vicepresidente e figura sempre più di peso, pur di sbarazzarsi di Dunga decide quindi di offrirgli 4,5 miliardi di buonuscita più il cartellino. La trattativa è estenuante, ma alla fine si arriva all’intesa.
“Fosse stato per me non sarei mai andato via da Firenze”.
Per Dunga, che anni prima era stato accostato con insistenza alla Juventus (quando i bianconeri chiusero per Baggio) si fanno avanti diverse pretendenti, ma essendo libero da vincoli non c’è alcuna fretta di decidere. Alla fine la scelta ricade sul Pescara, compagine che nella stagione precedente si è guadagnata la promozione in massima serie grazie ad un secondo posto in B.
Alla guida della squadra c’è Giovanni Galeone, un mito biancazzurro, e in estate la società abruzzese si è mossa in maniera ambiziosa. Dal mercato sono arrivati John Sivebaek (31enne esperto difensore che si è da poco laureato campione d’Europa con la Danimarca e che tra l’altro anni prima ha segnato il primo storico goal dell’era sir Alex Ferguson al Manchester United), Roger Mendy (difensore 32enne ex Monaco, autentica leggenda in Senegal e in seguito primo africano a segnare una rete in Serie A), Stefano Borgonovo (che con Dunga ha già giocato a Firenze, che col Milan ha vinto una Coppa Campioni ed una Coppa Intercontinentale e che ha scelto l’Adriatico per rilanciarsi) ed inoltre è tornato Blaz Sliskovic, centrocampista jugoslavo dalla tecnica incredibile che ama il calcio quanto le sigarette: ne fuma due pacchetti al giorno.
Il campionato del Pescara parte alla grande: vittoria in trasferta sul campo della Roma per 1-0 grazie ad una rete di Nobile. Poi arriverà una sconfitta interna con il Milan (4-5 con due autoreti di Baresi racchiuse in un paio di minuti), poi si andrà avanti tra poche gioie e diverse sconfitte di troppo.
La compagine abruzzese prova a giocarsela con tutti a viso aperto, ma semplicemente subisce troppi goal. Galeone è deciso a proporre un calcio offensivo, ma l’estremo difensore Savorani (che lo stesso tecnico definirà un optional dopo la sconfitta con il Milan, scatenando l’ira dell’Assocalciatori) trascorre la maggior parte del suo tempo in partita a raccogliere i palloni finiti nella sua rete.
E’ per questo che il Pescara decide di puntare forte su Dunga. Sa che il brasiliano può rappresentare un perno formidabile davanti alla difesa e che è quindi l’elemento ideale dal quale provare a ripartire dopo un inizio di campionato scandito da un solo successo, un pareggio e sei sconfitte (quattro delle quali consecutive).
L’ex viola si aggrega ai suoi nuovi compagni ad inizio novembre e, nonostante la condizione non sia delle migliori, diventa subito padrone della mediana. L’esordio coincide con una sconfitta contro il Parma, ma già alla seconda uscita, giocata con la fascia da capitano dal braccio, realizza uno dei due goal che permetteranno al Pescara di battere l’Atalanta.

Con Dunga in campo i risultati migliorano, ma non abbastanza. La differenza tra il brasiliano ed il resto dei compagni è evidente ed infatti viene schierato sempre titolare e non viene mai sostituito. Le speranze di salvezza si fanno di settimana in settimana sempre più flebili e nemmeno la decisione di esonerare Galeone per affidare a fine marzo la panchina a Zucchini, cambierà le cose. Il Pescara, con un sussulto d’orgoglio, si toglierà un’ultima soddisfazione nel penultimo turno del torneo travolgendo la Juventus con uno storico 5-1, ma intanto la retrocessione è realtà già da tempo. Saranno l’ultima partita e l’ultima vittoria italiana di Dunga.
Gli abruzzesi retrocederanno in virtù degli appena 17 punti messi in cascina in 34 partite, figli di sei vittorie, cinque pareggi e ben ventitré sconfitte. Al termine del campionato i goal fatti saranno 45 (12 dei quali realizzati dal capocannoniere della squadra, Massimiliano Allegri) a fronte dei ben 75 subiti. Con loro saluteranno la Serie A anche l’Ancona, il Brescia e quella Fiorentina che di tutto aveva fatto pur di liberarsi di Dunga.
Quello che mesi dopo con il pallone in mano che sta per sfidare Pagliuca è un giocatore che intanto è ripartito dalla Germania e dallo Stoccarda. Si avvicina al dischetto sicuro di sé, appoggia la sfera a terra, prende una lunga ricorsa e con il piatto destro spiazza il portiere italiano. Nel momento stesso in cui la palla varca la linea di porta, Pelé, che segue la sfida sugli spalti tra i giornalisti brasiliani, alza il pugni al cielo in segno di vittoria ed urla al mondo tutta la sua gioia.
Ciò che O Rei non sa è che quello calciato da Dunga, sarà l’ultimo pallone di USA ’94 a toccare la rete. Dopo il centrocampista infatti, sul dischetto si presenterà Roberto Baggio per l’Italia. Il resto è storia… .
Getty ImagesPochi minuti dopo, mentre i giocatori Azzurri sono in lacrime in campo, Dunga solleverà al cielo quel trofeo che rappresenta il sogno di tutti coloro che almeno una volta nella vita hanno dato un calcio ad un pallone.
Il centrocampista che solo un anno prima retrocedeva con il Pescara era sul tetto del Mondo e ci era arrivato da protagonista. Venne infatti inserito in quello che venne ribattezzato l’All-Star Team del Mondiali, insieme ad altre stelle di prima grandezza del torneo:
Preud’homme; Maldini, Marcio Santos, Jorginho; Brolin, Hagi, Balakov, Dunga; Stoichkov, Baggio, Romario.
Dunga fu l’uomo simbolo di una squadra che aveva regalato al Brasile il suo quarto titolo mondiale, un titolo che paradossalmente in patria in molti rinnegarono. Dopo le delusioni di Spagna ’82, Messico ’86 e Italia ’90, si era deciso di ripartire da una squadra più ‘europea’, che facesse della solidità una delle sue armi migliori.
La Seleção venne affidata a Carlos Alberto Parreira, un tecnico concreto che pensò ad una squadra concreta. L’undici titolare verdeoro comprendeva oltre a Dunga, gente come Aldair, Marcio Santos, Mauro Silva e Mazinho, tutti elementi lontani dallo stereotipo del giocatore brasiliano, che avevano il compito di garantire quantità a profusione, riprendere subito il pallone e poi servire in avanti i due veri fuoriclasse del gruppo: Romario e Bebeto.
Per molti brasiliani rinunciare a quella ‘Ginga’ che Pelé aveva mostrato al mondo come mai nessuno era riuscito a fare, era un disonore. Quasi meglio perdere, che vincere così.
Il Brasile di USA ’94 verrà ricordato come la meno spettacolare tra tutte le squadre verdeoro, ma si è guadagnato un posto nella storia insieme al suo capitano. Dunga, che della sua Nazionale diventerà anni dopo anche commissario tecnico, giocherà poi un’altro Mondiale con la fascia al braccio nel 1998 e andrà ad un passo da un altro trionfo.
Lascerà la Nazionale dopo 91 partite complessive, solo 3 delle quali perse. Non male per il meno brasiliano tra i brasiliani. Non male per un giocatore che ha provato cosa vuol dire salire in cima al mondo, ma anche scendere dalla Serie A alla Serie B.
