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"Era il talento più forte al mondo, poteva essere Messi, ma si è perso per strada": la grande speranza del calcio italiano che si ritirò a 23 anni

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È il 1977, il Bologna convoca per un provino due ragazzi entrambi classe '64. Uno viene da Jesi e si chiama Roberto Mancini, l'altro arriva da San Marino - gioca nel Tre Penne - ed è Marco Macina. Tredicenni, attaccanti, molto talentuosi. Tutti e due vengono presi dal club emiliano ed aggregati alle giovanili. Il primo diventerà uno dei più grandi fantasisti della storia del calcio italiano, vincendo Scudetti e coppe con Sampdoria e Lazio, e poi proseguendo una carriera piena di successi anche da allenatore, il secondo giocherà la sua ultima partita a 23 anni e poi letteralmente sparirà dalla circolazione, complici un infortunio ma anche un percorso che ancora oggi non ha una spiegazione.

Salto in avanti, il Ct dell'Italia Mancini parla in un seminario ai ragazzi del Bologna.

"Tecnica e personalità sono importanti, ma non sono tutto. Io ho perso un paio di anni dopo l'esordio, pensando che fossero tutto. Di qualità ne avevo, me l'aveva data il buon Dio, poi ho capito e sono migliorato tanto con il lavoro. Non l'avessi fatto, mi sarei perso, come Macina. Era un classe '64 come me, mio compagno nelle giovanili del Bologna: era il più forte del mondo tra gli Under 15, poteva essere Messi, non ho mai più visto uno con il suo talento. Ma non gli piaceva allenarsi e si è perso per strada".

Spendere il nome di Messi - ovvero uno dei giocatori più forti della storia del calcio - non è roba per tutti ed allora vale la pena tornare indietro a quel Bologna a cavallo degli anni '80 per capire come sia stato possibile bruciare una carriera che pareva avviata a vette altissime. Chiedere per conferma ai tanti osservatori che tra i due ragazzi avrebbero scommesso più sul sanmarinese che sullo jesino. Più talento, più capacità di fare la differenza. Eppure.

Mancini e Macina giocano assieme per 4 anni nelle giovanili del Bologna, finché non vengono promossi in prima squadra nella stessa stagione, 1981/82, non ancora 18enni. Un'annata sciagurata che vedrà i rossoblù - allenati prima da Burgnich, poi da Liguori - retrocedere in Serie B in virtù del penultimo posto in classifica, con una rosa in cui si ricordano capitan Colomba e il carneade tedesco Herbert Neumann, ma anche il consulente di Pallotta alla Roma Franco Baldini. Mancini riesce comunque ad affermarsi lo stesso: con 30 presenze e 9 reti è il migliore di quel Bologna. Destino diverso per il coetaneo Macina, che vede solo 8 volte il campo senza andare a segno e fatica a dare seguito alle mirabilie mostrate negli anni passati.

Nel 2018, sparito per anni dalle cronache, Macina ricorderà così i suoi esordi bolognesi assieme al Mancio, sulle pagine di 'San Marino Fixing'.

"Dovevo fare un provino per l'Inter ma un'infezione non mi permise di andare a Milano. Il Bologna, qualche tempo dopo, ne fece uno. Fu una cosa complicata perché avevamo meno di 14 anni. Nonostante il problema dell'età, fummo presi entrambi. Eravamo amici e andavamo d'accordo anche perché eravamo i più giovani a Casteldebole. Avevamo ruoli diversi: lui era una mezza punta, io un attaccante di fascia. La mia caratteristica era quella di saltare l'uomo e mettere la squadra nelle condizioni di avere un uomo in più in fase d'attacco. Ero l'uomo dell'ultimo passaggio, quello che si liberava del difensore con un dribbling. Facemmo insieme tutta la trafila fino ad arrivare alla prima squadra".

Il riferimento all'Inter in età giovanissima non è buttato lì, anzi è la prima 'sliding door' sfortunata che segna la carriera di Macina, come spiega lui stesso a 'Sportlive' nel 2015.

"Quali colpe ho avuto? Parlare di colpe è difficile: ha pesato l'assenza di fortuna nei momenti importanti. Io in realtà, da ragazzino, dovevo andare all'Inter, non al Bologna. Un signore di San Marino, padre di un mio compagno e tifoso nerazzurro, scrisse a Mazzola: 'Venite a vedere, qui c'è un fuoriclasse'. Fui convocato dall'Inter per un provino ma non potei andare, a causa di un'infezione. Quello era l'ultimo raduno che facevano quell'anno, così andai a Bologna. Mi avessero preso i nerazzurri, sarebbe cambiata la mia vita: non perché i rossoblù non fossero all'altezza, ma l'Inter è un'altra cosa. Avevo un grande talento, nei momenti clou però non sono stato supportato dalla fortuna: se non hai quella, non vai da nessuna parte...".

Torniamo indietro a quell'estate del 1982. Mancini saluta il Bologna retrocesso e a 18 anni spicca il volo verso la Sampdoria che lo consacrerà campione, dividendo per sempre la sua strada da quella di Macina, che invece resta in rossoblù per cercare di risalire subito nella massima serie. Nel frattempo gioca e vince i campionati Europei Under 16 assieme allo stesso Mancini con la maglia dell'Italia (San Marino all'epoca non era ancora affiliata all'UEFA ed i sanmarinesi erano assimilati agli italiani).

Ma la stagione 1982/83, se possibile, va ancora peggio per il Bologna, che cambia tre allenatori, si piazza terzultimo e retrocede in Serie C1. Macina trova più spazio, scendendo in campo 14 volte con due goal all'attivo, ma già si intravedono i primi problemi che marcheranno la sua carriera. Il 21 febbraio 1983 gli viene recapitata dall'allora Direttore Generale Giacomo Bulgarelli una raccomandata con cui viene messo fuori rosa a tempo indeterminato per "essere stato visto, da esponenti della società, in luogo pubblico (Club 37), contravvenendo così le disposizioni contenute nel regolamento societario". A fine anno viene mandato in prestito all'Arezzo, ancora in Serie B, disputando 11 partite - il suo impiego è limitato per un'operazione al naso - e contribuendo al buon sesto posto finale degli amaranto. Poi nell'estate 1984 passa al Parma, dove invece retrocede nuovamente in Serie C. Per il 20enne sanmarinese è tuttavia la miglior stagione in carriera con 26 presenze e 3 goal. Ed infatti già in autunno viene notato addirittura dal Milan di Liedholm, che lo acquista ma lo lascia in gialloblù per il resto dell'anno. È il Milan economicamente disastrato di Farina, che di lì a poco passerà la mano a Berlusconi, ma il problema non è quello, sono ancora una volta le cose sbagliate che succedono nei momenti sbagliati. Questo è il secondo bivio decisivo della vita di Macina, raccontato così a 'Sportlive'.

"A Parma avevo fatto subito bene e a novembre del 1984 mi comprò il Milan, che aveva gli attaccanti infortunati: non potei però andare via per l'impossibilità di fare due trasferimenti nella stessa stagione (era già passato dal Bologna al Parma, ndr) e approdai così a Milanello l'anno dopo, nel 1985. Liedholm stravedeva per me. La concorrenza era forte: c'erano attaccanti come Paolo Rossi, Hateley e Virdis. Fossi andato l'anno prima, probabilmente avrei giocato di più, visti gli infortuni delle punte. Gli insegnamenti di Liedholm? Non per essere presuntuoso, ma ero un giocatore di talento, quindi facevo cose che avevo naturalmente nel repertorio. Più che a livello tattico, direi che mi ha insegnato più sotto il punto di vista umano".

Liedholm era davvero innamorato di Macina, più di quanto dicano le sue 10 presenze totali in maglia rossonera quell'anno tra campionato e coppe, al punto da affermare che era "un giocatore più veloce con la palla tra i piedi che senza, mai visto uno così". Pupillo o non pupillo, Macina al Milan gioca poco vista la batteria di attaccanti a disposizione del tecnico svedese e sul conto del ragazzo continuano a girare voci di comportamenti non professionali, complice l'impatto con una città come Milano così diversa dalla provincia dove il 21enne sanmarinese aveva vissuto fino ad allora.

Marco Macina

Il 20 febbraio 1986 Silvio Berlusconi si prende il Milan ed inaugura decenni di grandeur che Macina non arriverà neanche a sfiorare, visto che l'estate di quell'anno viene mandato in prestito alla Reggiana per farsi le ossa in Serie C. Un balzo all'indietro da cui il ragazzo cerca di risalire, contribuendo al buon terzo posto finale degli emiliani con 23 presenze e 4 goal. Niente da fare, il Milan nel 1987 lo gira ancora in prestito, stavolta all'Ancona sempre in Serie C: quell'estate vedrà l'ultima preparazione precampionato di Macina. Dopo 4 partite giocate, in un match in casa dell'Ospitaletto, sente un dolore al ginocchio e si ferma. Sembra menisco, la realtà è diversa, ed è la terza e ultima 'sliding door' della sua carriera, quella che porta al fine corsa. Non solo per l'infortunio, ma per quello che seguirà.

"Sembrava solo una distorsione, il ginocchio non si era gonfiato - racconta a 'Sportlive' - riuscivo a correre dritto, non a fare i cambi di direzione, quindi continuai ad allenarmi. A dicembre feci un'artroscopia: rottura del legamento collaterale, il responso. Fui operato, persi tutta la stagione. Anche qui, come con le tempistiche del mio trasferimento al Milan, ci fu una situazione particolare: se il ginocchio avesse dato subito problemi, e mi fossi operato immediatamente, non avrei perso tre mesi...".

Era l'11 ottobre 1987, fu quella l'ultima volta che Macina scese in campo per una partita ufficiale con un club. Aveva 23 anni, compiuti 12 giorni prima. La sorte aveva infatti deciso che di lì in poi tutto sarebbe andato male, fino all'ultima scelta fatta dall'attaccante, diventare proprietario del proprio cartellino a costo di restare fermo due anni, come accadeva all'epoca prima della sentenza Bosman.

"Nel 1988 scade il mio contratto con il Milan, ma all'epoca, per essere proprietario del tuo cartellino, dovevano passare due anni dal termine dello stesso. Ci fu la possibilità di andare a giocare a Rimini, feci un provino con il Lucca. Anche a livello economico però, erano opportunità inferiori rispetto ad Ancona. Rimasi quindi fermo un anno: fosse arrivata una buona proposta avrei accettato ma, visto che non ci fu, mi dissi che stando fermo un'altra stagione sarei potuto tornare competitivo, con il mio cartellino in mano. Nel 1990, però, non ho avuto grandi possibilità: la mia ultima gara ufficiale è quindi quella contro l’Ospitaletto".

In realtà in campo Macina tornerà, con la maglia della neonata Nazionale di San Marino con cui disputerà 3 partite, diventando con lo juventino Bonini il solo altro giocatore sanmarinese ad aver giocato in Serie A. Ma il sogno era finito da tempo, con tanti rimpianti dovuti anche a quelle voci legate ai comportamenti fuori dal campo. E torniamo alle parole di Mancini: "Si è perso per strada...".

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"Ma no, non è vero che scappavo dai ritiri o andavo troppo in discoteca - nega Macina alla 'Gazzetta dello Sport' -Avevo questa nomea. Uno andava in discoteca quando la stagione era finita. Ho 56 anni, potrei ammettere le cose adesso, cosa cambierebbe? Non ho fatto nulla di sbagliato. Ma ai tempi magari si andava a cercare i motivi del perché un talento così si è sprecato. Non mi si sono incastrate bene le cose in carriera: senza fortuna nella vita non vai da nessuna parte. Errori? Ne ho fatti, certo. Dopo l'infortunio dovevo comunque rientrare, anche in Serie C, e dimostrare quanto valevo. Ma non era presunzione, in quei momenti ero demoralizzato, non ho accettato offerte perché speravo in soluzioni migliori. Ho sbagliato e a un certo punto non mi hanno più cercato. Ma se mi chiamate ancora adesso, dopo oltre 30 anni, significa che qualcosa valevo davvero".

L'orgoglio tuttavia ha resistito agli anni. Nelle parole di Macina - che oggi lavora all'Ufficio del Turismo di San Marino e non ha mai più incrociato il mondo del calcio - riaffiorano dal passato i guizzi, i dribbling e le giocate di chi "poteva essere Messi".

"Dal punto di vista tecnico, nel saltare l'uomo e nella velocità, ero più forte di Mancini. È sempre stato lui che l'ha detto. A quei tempi, a 17-18 anni, ho dato il meglio. In un torneo a Montecarlo tra le più forti Nazionali giovanili di tutti i Paesi, vinsi il premio di miglior giocatore. Fino a quell'età, ero tra i più forti al mondo. Rischio di passare per presuntuoso, ma in realtà era così...".

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