Nomen omen. Il destino di qualcuno, certe volte, si può scorgere già nel nome che porta incollato alla propria vita. Mauro Goicoechea, ad esempio, fa Daniel come secondo nome e Furia come secondo cognome, ovvero quello della madre. È una furia che può recare con sé significati lontanissimi tra loro. La furia agonistica di chi ha voluto sfondare nel grande calcio e, almeno per un periodo, credeva proprio di avercela fatta. Oppure la furia di chi ha visto giocare lui, tornandosene puntualmente a casa col fegato spappolato e il desiderio di non aver nulla a che fare con una squadra di calcio per - diciamo - una settimana o giù di lì.
Chiedete di lui a Roma – la metà giallorossa – e vi risponderanno a gesti: un sorriso amaro, le mani in testa, gli occhi verso il cielo. Chiedete di lui nell'altra metà di Roma – quella biancoceleste – e partiranno gli sghignazzi. Goicoechea, sì, quello della tenebrosamente indimenticabile papera contro il Cagliari. Ah, lui, quello che regalò una rete alla Lazio nel derby. Come no, il tremebondo caronte di Bologna, quello che trasportò un paio di palloni in porta sulla propria barca. Sentimenti contrastanti, opposti, però il fatto è di Mauro si ricordano tutti ancor oggi. Potenza di chi è riuscito a lasciare un segno nel mondo del pallone. Anche se in negativo.
Goicoechea ha rappresentato il più totale sprofondo (giallo)rosso. Un incubo durato appena una stagione, il 2012/13, con Zdenek Zeman in panchina e il solito ottovolante di emozioni in puro stile boemo: 71 goal segnati (terzo miglior attacco del campionato) e 56 subiti (seconda peggior difesa delle prime dieci in classifica), dei quali 24 proprio dall'uruguaiano, prelevato l'estate precedente dal Danubio. Levate dalla lista quelli senza colpe del diretto interessato: l'elenco si restringerà sempre di più, sempre di più, sempre di più, fin quasi a svanire nel nulla.





