Se gli anni a cavallo tra i Novanta e i Duemila hanno sancito il passaggio definitivo delle società di calcio da semplici rappresentative sportive ad azienda, i due decenni del nuovo millennio hanno visto la nascita e il consolidamento di un nuovo assioma.
L’attenzione mediatica e la capacità di condizionare le scelte di mercato di tifosi e appassionati hanno fatto sì che i calciatori, da atleti protagonisti in prima fila delle fortune dei club per i quali sono tesserati, si sono trasformati in vere e proprie aziende private a loro volta.
L’esempio più emblematico è quello di Cristiano Ronaldo, che del suo nome e della sua immagine ha fatto un marchio clamorosamente spendibile a livello commerciale, allargando i suoi guadagni anche attraverso lo sfruttamento del suo brand.
Spirito imprenditoriale mostrato anche da Gerard Piqué, che già negli ultimi anni di carriera antecedenti al ritiro ha investito su varie attività, diventando il principale promotore della Kings League, oltre ad aver messo le mani sulla Coppa Davis di tennis.
Il terzo decennio degli anni Duemila sta vedendo però sorgere un ulteriore fenomeno che vede in prima fila tanti calciatori ancora in attività. Stiamo parlando della rilevazione di quote di club di calcio in giro per il mondo.
Atleti che diventano azionisti, incidendo in maniera pesante sull’attenzione mediatica e sulla capacità di investimento delle squadre che vedono il loro ingresso nel capitale sociale.
Un trend sicuramente in voga e interessante, ma che solleva anche diversi dubbi relativi a violazioni - vere o presunte - del codice etico stabilito dalla FIFA.
Il caso più scottante delle ultime settimane è quello relativo a Vinicius Junior del Real Madrid, finito al centro di un caso che può fare giurisprudenza. Coinvolto nell'acquisto di un club brasiliano tramite una società di proprietà del padre, per il numero 7 dei blancos sono stati chiesti due anni di squalifica, in attesa che si pronunci la FIFA.


