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"Non ero Ronaldo": Sonny Anderson, il modello di Henry che sostituì il Fenomeno al Barcellona

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Il colore della pelle, a ben vedere, è simile. Anche il ruolo, attaccante puro. E il piede preferito con cui calciare, il destro. Certo, il look è differente, la massa di capelli sulla testa viene lasciata crescere con maggiore frequenza. Ma il Barcellona, nell'estate del 1997, pare non farci troppo caso. E come potrebbe? Ha appena perso – dolorosamente, altroché – il calciatore più forte del mondo, mica può star lì a soffermarsi sulle sottigliezze. Anche perché Sonny Anderson, che all'epoca ha 27 anni ed è nel pieno della maturità calcistica, è uno che pare non aver paura di nulla. Nemmeno di sostituire Ronaldo.

Certo, la missione è complicata. Complicatissima. Prima di abbandonare il Barça per l'Inter, nel contesto di un'infinita guerra di clausole e carte bollate, Ronaldo ha demolito e ricostruito il calcio. O Fenomeno, lo hanno ribattezzato. Si è innalzato al livello delle leggende, di lì a qualche mese alzerà al cielo di Milano il primo Pallone d'Oro della propria carriera. Anderson è diverso. Ha un curriculum più modesto, tra Svizzera e Francia, Marsiglia e Monaco, una Ligue 1 conquistata e una Coppa UEFA sfiorata con i monegaschi. Con Ronaldo non c'è paragone.

“Era complicato – ha ricordato Anderson a GOAL un paio d'anni fa – Per me è stato un periodo molto difficile, perché il Barcellona ha speso per me più di quanto avesse fatto per Ronaldo e la tifoseria si aspettava un rendimento simile. Ma lui era un giocatore unico e io, avendo giocato in Francia, ero poco conosciuto. Sostituire un calciatore del genere è sempre duro. Lo dissi subito, non ero venuto per rimpiazzare Ronaldo, anche perché stava iniziando un progetto nuovo, diverso”.

Anderson, in realtà, non è l'ultimo arrivato. Dopo gli esordi in Brasile nel Vasco da Gama, con tanto di trionfo nazionale nel 1988, viene preso dagli svizzeri del Servette, dove qualche anno prima ha chiuso la carriera Karl-Heinz Rummenigge. 18 i goal nella prima stagione, nella seconda si ferma a 11 ma a gennaio fa le valigie, direzione Marsiglia. Però il club di Ginevra vince anche senza di lui il campionato, trascinato dal tedesco Neuville (poi al Bayer Leverkusen) e dall'altro brasiliano José Sinval, un amico prima ancora che un compagno di spogliatoio. “Per tre mesi Sonny ha sempre mangiato a casa mia”, ha raccontato a 'Marca' Sinval, invitato nel 2007 alla partita d'addio al calcio di Anderson, di cui è stato una sorta di... scopritore.

“Mi trovavo in Brasile, sapevo che avevamo bisogno di un numero 9 e così l'ho segnalato al club. Pensate se avessi richiesto una percentuale per ogni suo trasferimento futuro: Marsiglia, Monaco, Barcellona, Lione, Villarreal...".

Al Marsiglia, che lo ha prelevato superando la concorrenza di Benfica e Borussia Dortmund, Anderson dura però appena metà stagione. E mica perché segni poco. Anzi: la porta la vede e la trova con una regolarità sconcertante. 20 partite, 16 reti. Per dire: i tre capocannonieri (Djorkaeff, Boli e Ouedec) si sono fermati poco più su, a 20, con un intero campionato a disposizione. Ma il club è nell'occhio del ciclone per il celebre scandalo Tapie, dal nome del presidente accusato di aver comprato una partita contro il Valenciennes. L'OM quella Division 1 (la futura Ligue 1) la chiude al secondo posto, ma prima ancora che la stagione finisca viene retrocesso d'ufficio in seconda serie.

Impossibile rimanere. Il brasiliano se ne va con la morte nel cuore, dirà in seguito che “sono diventato famoso grazie al Marsiglia, anche se ci sono rimasto solo sei mesi”, ma quando il Monaco bussa, l'OM bisognoso di denaro fresco non può non aprire la porta. Anderson diventerà un idolo anche nel Principato. Vincendo un altro campionato, nel 1996, da miglior giocatore. Facendosi desiderare da mezza Europa, pure dall'Inter, anche se nel '95 pare fatta per il suo approdo al Napoli, prima che le turbolenze societarie dei partenopei di quegli anni affossino il possibile affare. Diventa amico di un giovanissimo Thierry Henry, che proprio al Monaco muove i primi passi di una carriera che lo porterà lontanissimo. E ispirandolo, non solo con una palla tra i piedi.

“Il primo che ho visto giocare con i calzettoni alzati fin sopra al ginocchio, perché sì, ho preso spunto da qualcuno, è stato Sonny Anderson – ha raccontato Henry in una diretta Instagram con Kevin-Prince Boateng – Era arrivato al Marsiglia dal Servette, lo vidi per la prima volta in televisione con quei calzettoni e pensai tipo: 'Ma cosa sta facendo?'. Poi venne al Monaco, io acquisii il suo stile e non lo cambiai più. Il primo che ho imitato rimane sempre lui”.

Sonny Anderson MonacoGetty Images

È così che Sonny si presenta al Barcellona nell'estate del 1997. Quella delle prime convocazioni da parte della Seleção (saranno meno di una decina, divise in due tronconi netti). All'esordio con la canarinha, un'amichevole in Malesia contro Corea del Sud, entra a un quarto d'ora dalla fine, fa coppia con Ronaldo in attacco e segna la rete decisiva in extremis. Per averlo, il Barça ha sborsato nelle casse del Monaco 3000 milioni di pesetas, ai tempi record di spesa del club. È un centravanti, ma ama svariare, partire largo, giocare a tutto campo. È molto veloce, tanto che nei primi anni della carriera è stato soprannominato “Sonic”, come il videogame. Ha colpi balistici di alto livello nelle corde e spesso li fa valere. Sembra perfetto per il gioco dei catalani.

“Io il primo falso nove del calcio moderno? A me è sempre piaciuto giocare il pallone – ha detto ancora a GOAL – Oggi c'è Benzema, un giocatore che sa fare tante cose, che sa stare anche spalle alla porta, ma a cui non si può chiedere di rimanere fermo là davanti aspettando che arrivi la palla, perché questo non è il suo stile. Mi piacciono le sue qualità, è in costante movimento, fa fluire il gioco e fa segnare i compagni. Per me era la stessa cosa, ero felice sia che segnassi io sia con un assist”.

In quel Barcellona, non è solo il terminale offensivo a essere cambiato. Anche l'allenatore è nuovo. Via Bobby Robson, che ha appena vinto una Coppa delle Coppe, e dentro il profeta Louis van Gaal, il creatore del grande Ajax di metà anni 90. Non è semplice, il biennio in Catalogna di Anderson. Nella prima stagione segna 10 volte in Liga, nella seconda appena 6. Quando lo fa esulta mimando lo sparo di un'arma da fuoco, e così per tutti diventa 'El Pistolero'. Nel 1997/98 parte titolare, va in rete tre volte nelle prime due giornate, poi s'infortuna e perde il passo. Nella stagione successiva, l'arrivo di Patrick Kluivert dal Milan comincia a sbarrargli le porte. Tra qualche fischio del Camp Nou, alcuni dissapori con LVG e un ruolo di unica punta non esattamente congeniale con le sue caratteristiche, la magia svanisce ben presto.

Rimangono i trofei, questi sì. Dopo aver trionfato in Brasile, svizzera e Francia, Sonny Anderson si riempie nuovamente la pancia anche in Spagna. Vince due volte la Liga, una volta Coppa del Re e Supercoppa Europea. Ma si rende conto dopo pochi mesi che emulare le gesta di Ronaldo è ancor più complicato di quanto abbia pensato al momento di firmare col Barcellona. Anche se i momenti felici non mancano: un paio di goal al Real Madrid, ad esempio, oppure i quattro centri in sei presenze nella Champions League 1998/99, tra cui due in un doppio 3-3 contro il Manchester United.

“A van Gaal non piacevo. Una volta mi ha ordinato di giocare a centrocampo e marcare Mendieta, del Valencia. Ho giocato tre volte da centrocampista e sono stato criticato. L'allenatore diceva che la colpa era mia, perché un giocatore professionista deve saper giocare in tutti i ruoli. Con lui sono rimasto due mesi senza giocare, allenandomi e basta. E poi, quando sono tornato, mi inseriva nei cinque, dieci minuti finali. Io entravo, segnavo e lui non mi faceva nemmeno i complimenti, diceva solo che avevo avuto fortuna. Non c'era dialogo”.

Sonny non ha mai dimenticato un episodio in particolare. 28 aprile 1999, Camp Nou. Viene organizzata un'amichevole tra Barcellona e Brasile nell'ambito del centenario dei catalani. Giovanni e Rivaldo giocano con la maglia verde e amarela, convocati dal ct Luxemburgo. Anderson no, resta al Barça. Parte dalla panchina, entra in campo nella ripresa, si vede annullare un goal, serve a Figo l'assist del definitivo 2-2. Dirà, risentito: “Mi è dispiaciuto giocare contro il mio paese”. Un'altra delle innumerevoli crepe che porteranno alla rottura e all'addio dopo poche settimane.

"Non mi sono mai pentito di aver lasciato il Barcellona, nemmeno per un secondo – ha detto anni fa a France Football – Nella parte finale della mia esperienza lì, non volevo nemmeno alzarmi dal letto. Pensavo: 'Che tipo di accoglienza riceverò oggi? Van Gaal mi saluterà senza guardarmi? Anzi, mi saluterà?'. Dopotutto parlava raramente con le riserve. Non ci andrei nuovamente”.

A venire in soccorso di Anderson è la Francia. Di nuovo. Il Marsiglia farebbe carte false per riaverlo, ma i tempi delle vacche grasse e di Boksic, Abedi Pelé e della Champions League sono finiti. E così è il Lione dell'ambizioso presidente Aulas, che ha preso il club in seconda serie e sta finalmente completando il progetto di trasformarlo in una potenza del calcio francese, a trovare l'accordo col Barcellona. Sonny torna nell'Esagono nell'estate del 1999, in cambio di 18 milioni di euro (altro record di spesa, stavolta dell'OL) tra l'entusiasmo di un popolo che non ha dimenticato le sue imprese con OM e Monaco. Diventerà uno dei più grandi beniamini della storia del club, ma ancora non lo sa.

Sonny Anderson LyonGetty Images

Le 23 reti della prima annata sono un antipasto, perché il campionato, ironia della sorte, lo conquista il Monaco. Le 22 della seconda, che ancora una volta gli consentono di guidare la classifica dei marcatori, non impediscono che il titolo finisca nelle mani del Nantes. Ma dalla stagione successiva inizia il dominio del Lione. Che trionfa una volta, due volte, sette volte. Di fila. Dal 2001/2002 al 2007/2008 inizia un'irripetibile epopea che vede sbarcare alla Gerland talenti in erba, campioni, idoli.

Anderson è uno di questi. Segna a grappoli, in campo nazionale e internazionale (punisce due volte anche l'Inter nella Champions League 2002/2003), e indossa la fascia di capitano, che in seguito arrotolerà al braccio di Juninho Pernambucano. Senza esagerare: è uno che segna un'epoca. Lo chiamano 'Sonnygoal', lo adorano, esultano un weekend sì e l'altro pure. In quattro stagioni, Sonny realizza 71 reti in 110 partite di campionato. Contando anche le imprese con Marsiglia e Monaco, diventano 138 reti in 221 tra Division 1 e Ligue 1. Un'enormità.

“Quando sono arrivato – ha ricordato al portale brasiliano 'UOL' – il Lione era un club normale. Non aveva titoli. Però voleva iniziare a vincere qualcosa. Siamo riusciti a conquistare il campionato per la prima volta, poi per la seconda, quindi io sono andato via. È stato bellissimo. Con me c'erano Caçapa, Cris, poi sono arrivati Fred, Edmilson. Il mio acquisto ha convinto altri brasiliani a venire al Lione”.

Quando se ne va, nel 2003, lo fa soprattutto perché l'età sta avanzando inesorabilmente. Ma la breccia nel cuore di ogni appassionato lionese è netta e profonda. Anderson sceglie il Villarreal, a novembre segna al Barcellona e esulta mimando lo sparo non di una pistola, ma di un bazooka. "Avevo promesso ai miei figli che avrei festeggiato così”, si giustifica, ma la sensazione di una rivincita nei confronti di chi non ha creduto in lui ce l'hanno un po' tutti. Nella memoria storica del Submarino Amarillo rimangono anche le due reti alla Roma, una all'andata e un'altra al ritorno, che significano passaggio ai quarti di Coppa UEFA.

L'anno successivo il Villarreal prende anche Forlan e Lucho Figueroa, ma è Anderson ad andarsene. Lo seduce il Qatar e lui non sa resistere allo scenario di racimolare gli ultimi spiccioli della carriera. Un biennio tra Al Rayyan e Al Gharafa, poi la decisione di fermarsi. Giusto per capire il legame col Lione: la notizia la dà il sito ufficiale dell'OL, anche se da un bel po' non è più la sua squadra. La partita d'addio si svolge, non a caso, alla Gerland. Tra mille volti illustri: Thierry Henry, Pep Guardiola, Lilian Thuram, Christophe Dugarry. E non solo. “I grandi giocatori passano, le leggende restano”, si legge in uno striscione. “Lione ha sognato, Sonny l'ha fatto”, recita un altro. Lacrime. Sipario.

Anderson, che al Lione tornerà nelle vesti di preparatore degli attaccanti, ha lasciato un segno anche in un padre di famiglia brasiliano. José Antonio, soprannominato Carvalho, alla fine degli anni 90 accende la tv per assistere a una partita della Seleção e rimane colpito da questo attaccante così vivace e rapido. Tanto da decidere di omaggiarlo dando il suo nome al figlio che sta per nascere: “Ma volevamo che iniziasse con la T, come la sorella Thaisa”. E così, ecco Thonny Anderson. Che oggi ha 24 anni, è passato per club come Cruzeiro e Grêmio e indossa la maglia del Coritiba, nella Serie A del Brasileirão. Con il sogno di emulare il suo quasi omonimo.

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