Favalli MilanGetty Images/GOAL

16 trofei e record tra Inter, Lazio e Milan: Favalli, una carriera gloriosa in silenzio

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Nell'era digitale, il non apparire sembra quasi essere un sinonimo di non esistere. Niente Facebook, niente Instagram, niente Twitter, niente Snapchat o Tik Tok? Fantasma. Niente ore passate a modificare le proprie foto o ad emergere con moderazione sui social? Entità trasparente che fluttua senza lasciare traccia. Sembra, appunto. Perché la vita esiste anche oltre. Sembra un'ovvietà, ma è così. Tanto che chi non mostra, riesce comunque ad essere, per chi ha a cuore. Del resto anche senza apparire ogni due per tre in video, limitando le proprie presenze virtuali e fisiche, si può essere una leggenda, anche per le nuove generazioni. Chiedere a Giuseppe, Beppe, Favalli.

Partiamo dal presupposto, non drogato dalla nostalgia, ma veritiero e indubbiamente oggettivo, che le nuove generazioni possono assistere ad ogni minima azione del proprio beniamino. E la vicinanza ad esso, in ogni fase della sua vita privata e calcistica, porta a vedere lo stesso come leggenda, molto più dei grandi del passato, troppo oscuri e lontani per arrivare a chi conoscono. La paura dell'ignoto.

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Nonostante abbia Instagram, Favalli usa il mezzo con moderazione, spinto dalla curiosità più che dalla voglia di mostrare tutto sé stesso ai millenials. Non viene mai inserito nei grandi racconti perché non appare su Twitch, nei grandi salotti tv o nelle continue dichiarazioni, quasi sempre banali, nelle centinaia di fonti di informazione moderno. Non ha una sua carta su FIFA o un marchio. Ha una Harley Davidson, libero di viaggiare, libero di sfruttare quanto fatto da calciatore. Da gregario sì, ma di quei gregari che ora non sarebbero oro colato, sarebbero platino, oro, diamante e per chi ama i comics, vibranio e adamantio. Tutto mischiato.

Favalli è sempre stato così. Silenzioso leader, quasi timido. Una parola che nel calcio non fa rima con forza, dicono. Dicono, perché sul campo, da terzino sinistro e centrale, ha segnato record e vinto tutto, fedele ai propri ideali e a pochissime squadre in cui ha militato e vinto, lasciando sempre un buon ricordo, un sorriso. Non una parola fuori posto, non una polemica, non un rapporto di amore e odio. Solo amore. Qualcosa di fastidioso per chi ha bisogno di quella tensione quasi rabbiosa per portare avanti un rapporto d'amore verso una persona, platonico o personale che sia.

Beppe Favalli da Orzinuovi, piccolo comune di 12.000 abitanti della provincia di Brescia, che ha dato però agli albori anche due volti noti del calcio come Sergio Volpi e Cesare Prandelli. 35 km da Cremona, dalla Cremonese. Dallo zio Erminio, che nel calcio qualcosa ha contato: ha vinto la Champions/Coppa dei Campioni con l'Inter, lo Scudetto con la Juventus, ma è cresciuto nelle giovanili del club grigiorosso, prima di spiccare il volo. Porta il nipote in squadra perchè sì, è il nipote, ma anche perché i geni calcistici sono rimasti all'interno della famiglia. Altrimenti, sai quanti parenti vengono scartati nel lungo periodo perché non adatti? Tanti. Ma tanti. Lui no.

Sì, perché Favalli, quello giovane, non zio Erminio, cresce bene nelle giovanili, tanto da essere portato in prima squadra ad un'età leggermente da record, ma proprio leggermente: a 15 anni è già coi grandi, e nel 1989, ad appena 17 anni, gioca la sua prima gara tra i professionisti, in Serie B. Non influirà nella promozione del suo team, viste le sole due apparizioni, ma farà parte di quel gruppo che nel 1989 conquista la massima serie. Boom.

Perché Erminio era Erminio, ma Giuseppe, ancora tale e non Beppe, dimostra di saperci fare, appena maggiorenne. Lo zio, ds della Cremonese, gongola, lui si sbatte da una parte all'altra del campo, silenzioso, ma non allo sbaraglio, duro nei contrasti, veloce nella falcata, morbido nel sorriso che sa dare ai compagni più grandi, abbassando la testa, imparando, assimilando.

Col tempo, intesi quattro anni da professionista, in cui la delusione di una retrocessione si alterna con la felicità per una nuova promozione, Favalli si è fatto un nome e a vent'anni, con 103 gare in saccoccia a colori grigio e rossi, arriva la chiamata della Lazio, per 5 miliardi di lire. Mister 5 miliardi di lire. Tanto paga l'Aquila volante, perché il ragazzo si è appena laureato Campione d'Europa con la Nazionale Under 21 e il suo valore sta crescendo esponenzialmente. Meglio bloccarlo subito.

Viene bloccato dalla Lazio, e la sua carriera fa il contrario esatto di quella parola, blocco. Si apre, si espande, vola in orbita. Favalli è giovane, ma nessuno dei compagni di reparto sembra poterlo mettere alle sue spalle. Buoni giocatori, ma di campioni, con tutto rispetto, nemmeno l'ombra. E così, sotto Dino Zoff, è titolare e in poco tempo idolo, di quelli puri e semplici, eroi.

Favalli non perderà più il posto a Roma in quel decennio, uno dei primi pilastri di una società cragnottiana che pian piano comincia a trasformarsi in furia, ceca (vedi Nedved), sudamericana (leggasi Veron, Salas, Simeone) e fiera, italiana (Mancini, Nesta, Marchegiani). Davanti al ben di divinità che sbarca nella Capitale per la sbornia di milioni, sembra diventare piccolo in un mondo più grande di lui. I titoli sono tutti per gli altri: e allora? Chissenefrega.

Gli anni nella carta d'identità sono ormai 32 anni, ma nei quadri digenziali delle grandi l'età ha significato solamente quando tu, come calciatore, hai dimostrato poco. L'opposto di Favalli. Che trova nella società nerazzurra un approdo sicuro, in cui deve però sbattersi, stavolta da gregario, realmente, per timbrare il proprio nome nella storia meneghina. Vince la Coppa Italia al suo primo anno e poi, stagioni più avanti, lo Scudetto calciopoliano, della Juventus prima e del Biscione poi.

All'Inter lo chiama Mancini, con cui ha vinto alla Lazio. Qualcuno scriverà che sì, è stato chiamato a Milano solo per quel motivo, dimenticando per l'ennesima volta la carriera favalliana, che in biancoceleste ha fatto meglio di chiunque altro per presenze e trofei, guadagnandosi il diritto di essere chiamato in ogni big mondiale. La sua scelta è l'Inter, per un biennio di 68 match di zero reti. Perché va bene tutto, ma no, non ha mai avuto il vizio del goal. Passiamo oltre.

Zitto zitto e quatto quatto, Favalli diventa il giocatore con più presenze nella storia della Lazio: un titolo che sembra dare subito vita ai vabbè, ai ma e ai però, perché senza una vita privata strana o variegata, sembra quasi non aver raggiunto un tale traguardo.

Eppure sì, numero uno per gare con i biancocelesti, fascia da capitano, tre Coppe Italia, due Supercoppe Italiane, uno Scudetto, una Supercoppa Europea e una Coppa delle Coppe. Praticamente ciò che il 99% dei calciatori professionisti nella storia del calcio non ha mai raggiunto. E mai raggiungerà. Eppure, poche prime pagine. L'opposto di quelle che in ritiro divora, all'interno dei libri. Zen, equilibrato, poco attento al vendere la propria immagine. Quel che ha un inizio ha però anche una fine e dopo 401 gare biancocelesti, saluta, da svincolato. Per un nuovo capitolo chiamato Inter.

Favalli InterGetty Images

Lo Scudetto assegnato mesi dopo la fine della stagione ufficiale e della po-po-po sbornia tedesca, è un punto in più (e che punto) alla sua era interista, in cui ancor più rispetto a quella biancoceleste, è giudicato come volto da seconda pagina. Alla Lazio lo era, nonostante in campo fosse da titolo di testa, mentre all'Inter sì, non è mai prima scelta nemmeno sul terreno di gioco. Le stagioni così si limitano a due. Ma la città gli piace e chiusa una porta si apre un portone. All'entrata c'è il Diavolo, che si inchina e lo fa passare, per un iniziale biennio che si trasformerà in quadriennio.

E subito, Favalli chiude il cerchio da calciatore vincente. Alla sua prima annata con il Milan vince la Champions League come lo zio Erminio, giocando quattro incontri, di cui la finalissima: pochi secondi nel finale del finale di gara ateniese, abbastanza per il tabellino e per la gloria che sarebbe comunque arrivata. Ma quando si parla di Beppe è sempre meglio aggiungere la possibilità di evitargli quella mancata visibilità che lui sembra fuggire e che invece dovrebbe cader sopra tipo pioggia nella stagione dei monsoni.

FavalliGetty

Alla fine, Favalli da Orzinuovi chiuderà con 16 trofei 16 la sua carriera, cifra più che tonda che nel 2010 sembra quasi passare inosservata, quando appende gli scarpini al chiodo per provare qualche esperienza qua e là, tra cui il ruolo di allenatore delle giovanili della Cremonese. Al Milan il 2007 farà rima con internazionalità, vista la Champions prima e a guarnire la torta anche Supercoppa Europea e Mondiale per Club. A 35 anni Beppe completa l'album dei trofei in cui non c'è spazio. O quasi.

Il grande rammarico della carriera, guardando dall'esterno e non dalla mente di Favalli stesso, rimane la Nazionale azzurra. Intesa quella dei grandi, vista la già citata conquista dell'Europeo Under 21. Il suo carattere schivo e la sua normalità, non sempre sinonimo di noia e banalità, gli bloccheranno sempre, o quasi, l'accesso alla rappresentativa, con cui disputerà solamente otto gare, di cui una nel 1994, una nel 1998 e il resto nel 2004. Simbolo di come la massa abbia sempre visto in lui una seconda scelta, un sì ma però. Poi però, la pergamena dei trofei e dei dati viene srotolata. Giù di numeri, rifatevi gli occhi.

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